Radiazioni ionizzanti e responsabilità medica: quando il dentista è chiamato a rispondere penalmente?

 

Radiografie per studiare un caso odontoiatrico, sempre più frequenti, ma  attenzione!

Sì, attenzione, verrebbe da dire, perché di recente la Corte di Cassazione ha confermato la sanzione penale a un dentista che aveva effettuato indagini radiografiche con “Cone Beam” su pazienti che non avevano poi effettuato gli interventi di implantologia.

È quanto emerge dall’ultima decisione (Numero 36820/2022 del 29.09.2022) della Suprema Corte di Cassazione che ha condannato un odontoiatra che aveva sottoposto 25 pazienti a radiazioni ionizzanti “Cone beam” senza addivenire per ben 12 di loro ad alcun intervento successivo.

L’utilizzo dello strumento radiografico da parte del medico, infatti, (che non assurge a laboratorio di analisi a tali esami autorizzato verso terzi) fa sì che si rientri nel campo della diagnostica complementare a un intervento che trova la propria giustificazione solo se è un ausilio diretto all’odontoiatria nell’espletamento dell’intervento.

Prima di creare allarmismi ingiustificati o giungere a facili conclusioni, cerchiamo di capire meglio in questo articolo il caso concreto sottoposto al vaglio della Suprema Corte e spieghiamo cosa prevede la legge al riguardo e quali sono i criteri richiesti per l’utilizzo della diagnostica complementare.

La vicenda sottoposta al vaglio della Suprema Corte

Il Tribunale di Palermo condannava il dentista alla pena condizionalmente sospesa di 3000 euro di ammenda, in quanto ritenuto colpevole del reato di cui all’art..14, co. 1, d. Igs. 187/2000, per aver esposto numerosi pazienti a radiazioni ionizzanti con apparecchiature “Cone Beam”, al di fuori del perimetro fissato dalla legge, ovvero, senza giustificarne il ricorso, senza documentare esigenze diagnostiche e senza valutare i potenziali vantaggi diagnostici o terapeutici.

Avverso tale sentenza, il dentista propone ricorso per cassazione denunciando vizio di legge e di motivazione.

Raggi X: cosa dice la Legge, i criteri della diagnostica complementare

Perché l’impiego di strumenti diagnostici complementari all’intervento sia legittimo è necessario che si tratti di attività contestuali, integrate e indilazionabili rispetto alla prestazione medico-chirurgica principale.

A prevederlo è la disciplina contenuta nell’attuale Tit. XIII del d.lgs. n. 101/2020 relativo alle “esposizioni mediche” i cui artt. 157 e 158, riproducono pressoché letteralmente le omologhe previsioni degli artt. 3 e 4 dell’abrogato d.lgs. n. 187 del 2000.

Secondo la richiamata normativa, le attività radiodiagnostiche complementari (quale quella eseguita con l’apparato radiodiagnostico “Cone Beam”) di ausilio  diretto all’odontoiatria per lo svolgimento di specifici interventi di carattere strumentale propri  della disciplina, devono essere “contestuali, integrate e indilazionabili, rispetto all’espletamento della procedura specialistica”.

In mancanza, cioè in caso di esposizione non giustificata del paziente ad esame radiodiagnostico (eseguito con tale apparecchiatura), l’art. 213 del D.Lgs. n. 101/2020 prevede una sanzione afflittiva  dell’arresto da sei mesi ad un anno o l’ammenda da euro 20.000,00 a euro 60.000.

La decisione dei giudici

Nel ricorrere in Cassazione il dentista fa presente di aver sottoposto i suoi pazienti all’esame radiodiagnostico eseguito con apparecchiatura “Cone Beam”, per finalità diagnostiche in materia odontoiatrica.

Spiega che, l’esito di detto esame gli avrebbe fornito le conoscenze necessarie sulle condizioni dei pazienti per poter decidere poi il piano terapeutico più adeguato, non potendo non appurare la struttura ossea della bocca, prima di eseguire un intervento di implantologia.

Tuttavia, la Suprema Corte, di avviso opposto nel decidere il caso, ritiene corretto il ragionamento del primo giudice, e decide per il rigetto del ricorso del dentista, confermando la sua pena.

Secondo la Suprema Corte, infatti, per attività radiodiagnostiche “contestuali” deve farsi riferimento a tutto ciò che avviene nell’ambito della prestazione stessa e ad essa rapportabile.

Nella pratica complementare, spiegano i giudici, il requisito della contestualità attiene sia all’ambito temporale in cui si sviluppa la prestazione strumentale specialistica, sia anche l’ambito funzionale necessario al soddisfacimento della finalità della stessa prestazione specialistica.

Inoltre, per risultare utile ed efficace, deve risultare funzionalmente non dilazionabile in tempi successivi rispetto all’esigenza di costituire un ausilio diretto immediato al medico specialista o all’odontoiatra per l’espletamento della procedura specialistica stessa.

Ecco come argomentano nello specifico i Supremi giudici:

“In particolare, si deve intendere a tal fine, secondo l’uso comune della lingua, per “contestuale” tutto quello che avviene nell’ambito della prestazione stessa e ad essa rapportabile. Il requisito della “contestualità” attiene sia l’ambito temporale in cui si sviluppa la prestazione strumentale specialistica, sia anche l’ambito funzionale necessario al soddisfacimento delle finalità della stessa prestazione specialistica. Funzionalmente l’uso della pratica complementare deve essere connotato dall’essere un elemento di ausilio alla prestazione stessa, in quanto in grado di apportare elementi di miglioramento o arricchimento conoscitivo, utili a completare e/o a migliorare lo svolgimento dello stesso intervento specialistico di carattere strumentale.

Ulteriore requisito richiesto per legittimare l’esecuzione di accertamenti radiodiagnostici complementari è rappresentato inoltre dalla necessaria condizione che la pratica complementare, per risultare utile ed efficace, deve risultare funzionalmente non dilazionabile in tempi successivi rispetto all’esigenza di costituire un ausilio diretto ed immediato al medico specialista o all’odontoiatra per l’espletamento della procedura specialistica stessa (dovendo come prescritto risultare “indilazionabile”)”.

Stante le considerazioni che precedono, possiamo concludere che,

sono da ritenersi giustificate ed ammesse solo quelle pratiche complementari che, per la loro caratteristica di poter costituire un valido ausilio diretto ed immediato per lo specialista, presentano il requisito sia funzionale che temporale di essere “contestuali”, “integrate” ed “indilazionabili” rispetto allo svolgimento di specifici interventi di carattere strumentale propri della disciplina.

Nel caso di specie, la Corte ha rilevato che difettavano sicuramente i requisiti della contestualità e della indilazionabilità, rilevando sopratutto la circostanza secondo cui su 25 pazienti del dentista, 12 di essi, pur essendo stati sottoposti all’esame, non avevano poi effettuato alcun trattamento odontoiatrico.

Il dentista è stato, quindi, ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 14 (abrogato dal dlgs n. 101/2020) del dlgs n. 187/2000 perché avrebbe esposto molti pazienti a radiazioni ionizzanti senza documentate necessità diagnostiche e senza valutar anteriormente vantaggi e svantaggi.

Responsbailità medica in ambito odontoiatrico: Considerazioni conclusive

Nel caso che abbiamo appena visto, il dentista aveva sottoposto i propri pazienti alle radiazioni ionizzanti in assenza dei requisiti espressamente richiesti dalla normativa di riferimento.

Non basta, infatti, fare radiografie per studiare il caso, se queste non sono complementari alla cura e in stretto legame con l’intervento implantologico

Come efficacemente evidenziato dai Supremi Giudici, pur potendo in astratto riconoscersi la sussistenza del requisito di legge, come voleva sostenere il sanitario nelle sue difese, il caso è stato deciso verificando, in concreto, i requisiti della contestualità e della indilazionabilità e accertando come nel caso specifico i pazienti non avessero poi effettuato alcun trattamento odontoiatrico.

Al di là del caso appena esaminato in questo articolo i profili di responsabilità odontoiatrica del dentista sono numerosissimi.

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